Le spirali di Alfonso Caputo
Fa piacere, ogni tanto, poter parlare di un artista che sa quello che fa, sia sul piano strettamente operativo ed artistico che su quello ideologico; un artista, in poche parole, perfettamente autocosciente di se e delle proprie opere.
Si tratta di un’occasione più unica che rara. Qualcuno noterà che dovrebbe essere sempre così, ma possiamo assicurare che la maggior parte degli artisti, gli italiani in particolare, fanno quello che “gli viene” senza porsi molti problemi, salvo, poi, offendersi se il pubblico e la critica chiedano spiegazioni.
Questo risultato non è solo frutto di una predisposizione naturale alla creatività ma anche di uno sforzo e di un’applicazione continua ad acquisire un linguaggio artistico, a perfezionarlo ed a trovare i mezzi per esprimerlo nel migliore dei modi.
Questo è il primo merito che l’autore ha perché nessuno “nasce saputo”, e Caputo si diventa solo con molta applicazione e fatica. Si perdonerà il bisticcio verbale ma il merito di Alfonso (sia permesso di chiamare per nome un amico) è proprio nella fatica continua che ha ha impiegato per raggiungere un perfetto connubio tra perfezione formale ed idea.
Anche ad un’occhiata superficiale, infatti, risalta immediatamente come i quadri esposti siano il risultato di una lunga ricerca sia interiore che materiale.
Anzitutto il principio della spirale è proposto in entrambi i sensi applicabili, centripeto e centrifugo, indicazione di forze che convergono e contemporaneamente possono espandersi, e visto che le spirali hanno un movimento che non ha limiti in se stesso se non quelli fisici della sua rappresentazione il loro valore diviene, anzi, è già in se stesso, universale e indicativo dell’universalità sia dell’universo e del macrocosmo che del microcosmo individuale che in questo universo si colloca.
Alfonso Caputo trova il punto in cui tutto diviene in noi stessi valore e forza vitale ed al tempo stesso in cui noi stessi possiamo espanderci dalla nostra limitatezza all’infinito, non in una contemplazione statica ma vitale e dinamica, sempre in evoluzione ed in movimento.
I quadri, naturalmente, hanno una loro forma e validità fisica e l’uso di più tecniche contemporaneamente permette loro di ottenere il massimo in termini di comunicatività, si pensi solo al vigore che ha la superficie rafforzata dall’uso della sabbia, uso delicato nella realizzazione ma estremamente concreto nell’effetto che la luce incidente può generare.
A questo si aggiunge una capacità di colloquiare con l’ambiente espositivo, qualunque esso sia, ottenuta genialmente da cornici apparentemente classiche ma che usano, come passpartout la superficie espositiva stessa retrostante o, se Alfonso volesse, perfino lo spazio ambientale puro, perché siamo convinti che potrebbero galleggiare tranquillamente nel vuoto, o quasi, senza perdere nulla. Da qualunque parte provenga la luce e qualunque valore abbia, questi quadri manterranno sempre il loro valore di “parole significanti” perché lo portano nella struttura stessa che l’artista ha voluto dare loro.
Lo stesso passaggio dalla circolarità al quadrato ferma e consolida il concetto espresso, generando il passaggio dal contingente del movimento all’assoluto dell’arte, che è anche il passaggio dal “tutto scorre” di Eraclito alla presa di coscienza dell’eternità di questo scorrere della vita.
Se ci dovessero chiedere di spiegare cosa sia una ricerca in arte porteremmo ad esempio proprio Alfonso Caputo che crea un suo linguaggio visivo, chiaro e preciso e soprattutto efficace, in cui le varianti delle singole opere corrispondono all’uso di termini che hanno uno stesso significato di base ma si arricchiscono a vicenda. Si tratta di un linguaggio la cui grammatica è comunicata dalle opere stesse e nessuno spettatore potrebbe dire di non capire o non apprezzare senza malizia; ma tutti saranno compresi ed avvolti da queste spirali così vitali.
Umberto Maria Milizia
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